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Senza spine e di grandi dimensioni, i Carciofi “Romaneschi” sono il simbolo del Lazio


Le prime fioriture nei prati e la schiusa delle gemme sui rami degli alberi annunciano il risveglio della natura: è primavera! Le giornate si allungano ma il clima, ahimè piovoso e con temperature rigide, tarda a diventare mite facendoci, ancora, soffermare …

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… sull’ortaggio ”principe” del Lazio che ci accompagna per tutte le fredde giornate invernali conducendoci alla tanto attesa primavera: il “Carciofo Romanesco del Lazio I.G.P.

(Cynara cardunculus L. scolymus L.) registrato con Reg. (CE) n. 2066 del 22/11/2002 pubblicato su G.U.C.E. n. 318 serie L del 22/11/2002.

 

Appartenente alla famiglia delle Asteraceae, chiamata comunemente Compositae (che annovera circa 20.000 specie tra cui piante molto comuni e presenti quotidianamente sulle nostre tavole: assenzio, dragoncello, camomilla, girasole, topinambur, cardo, tarassaco, lattuga, cicoria-radicchio, invidia…), è una pianta erbacea perenne che, tuttavia, per esigenze colturali si coltiva a cicli (quadriennali per il “Romanesco”). Dal suo rizoma dipartono vari germogli chiamati carducci ma, come indica il disciplinare, solo uno sarà coltivato mentre gli altri saranno asportati, alcuni dei quali verranno utilizzati per la riproduzione di nuove carciofaie (propagazione per via agamica, in quanto quella gamica, mediante seme, è pressoché in disuso). La pianta ha un fusto eretto, alto più di un metro, che sviluppandosi porterà alla formazione del capolino principale. Successivamente il fusto si ramificherà producendo, capolini secondari (2° e 3° ordine) commercializzati come “fresco”. I capolini di modeste dimensioni saranno, invece, destinati all’industria conserviera. Il carciofo è un ortaggio da fiore poiché la parte della pianta usata nell’alimentazione è solo l’infiorescenza che, immatura, sarà recisa impedendo così la schiusa delle brattee (comunemente chiamate foglie, di colore verde con sfumature violette, disposte una sull’altra a protezione dei “flosculi”) con conseguente uscita dei fiori. Il capolino che è composto di parte basale (ricettacolo carnoso), brattee, fiori e setole bianche (chiamate “pappo”) ai primi stadi di sviluppo (che assumono il nome di “barba”) costituisce la parte edule del carciofo. Se, quest’ultima, non sarà asportata la pianta fiorirà, producendo un frutto secco (achenio), di colore grigiastro bruno screziato, che contiene un unico seme. Il carciofo esige un clima mite e mediamente umido, non tollera sia temperature molto elevate sia inferiori ai 0°C., inoltre richiede abbondanti quantità idriche. Preferisce terreni profondi, freschi, di medio impasto. Necessita notevoli apporti di fertilizzanti minerali in quanto una carciofaia asporta dal terreno rilevanti quantità di azoto, carbonato di potassio e anidride fosforica. Si precisa che, al fine di reintegrare le sostanze organiche, si attua l’interramento, previo sminuzzamento, dei residui colturali ottenuti dalla dicioccatura. La coltivazione avviene mediante agricoltura convenzionale con messa a dimora dei carducci da agosto a ottobre. Il sesto d’impianto (distanza delle piante sulla fila e tra le file) è in media 1 x 1 metro, con una densità di 10 mila piante per ettaro e un raccolto che oscilla su i 100 mila capolini/ha. Le cultivar per il “Carciofo Romanesco del Lazio I.G.P.” sono raggruppate, con i loro relativi cloni, in due varietà: la precoce “Castellammare” e la tardiva “Campagnano”. La castellammare è una pianta di taglia medio-grande con foglie di colore verde scuro. Produce in media 6-8 capolini per consumo fresco e circa 5-8 per l’industria conserviera. Per la varietà campagnano si ha una taglia più grande e foglie di colore verde cinerino con il cimarolo di dimensioni molto grandi. La pianta produce circa 8-10 capolini per il fresco e solo 4-5 per il trasformato. La raccolta, che è effettuata manualmente e in modo scalare, inizia, in base alle cultivar, a gennaio per la precoce e da marzo ad aprile per la tardiva. I capolini che non hanno un colore da verde a violetto, una forma sferica e che non raggiungono un diametro di 7 cm, esteso a 10 per i cimaroli, verranno destinati solo all’industria conserviera per la surgelazione e l’inscatolamento. L’area di produzione “I.G.P.” comprende le provincie di Viterbo, Roma, Latina, nello specifico, i comuni di: Montalto di Castro, Canino, Tarquinia, Allumiere, Tolfa, Civitavecchia, Santa Marinella, Campagnano, Cerveteri, Ladispoli, Fiumicino, Roma, Lariano, Sezze, Priverno, Sermoneta, Pontinia.

Andrea Russo

Senza spine e di grandi dimensioni, i Carciofi “Romaneschi” sono il simbolo del Lazioultima modifica: 2009-04-02T09:44:00+02:00da gastronomo-a
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